De Chirico. Sdoppiamento di una personalità

Amante di giochi originali e inquieti, di pastiche, rinnegamenti e serie infinite, l’artista italiano è onorato da una grande retrospettiva parigina. Ritratto in due tempi.
Judicaël Lavrador, Beaux Arts éditions, Febbraio 13, 2009
 
Al Museo d’Arte Moderna della Città di Parigi. Giorgio De Chirico: Geometra dell’assurdo

 

Gloria e discredito. L’opera di Giorgio de Chirico gli avrà portato entrambe le cose, senza che l’artista italiano sembrasse più colpito dall’una che dall’altra. Oggi che il Museo d’Arte Moderna della Città di Parigi gli dedica una grande retrospettiva, la sua messa all’indice da parte di Breton e dei surrealisti negli anni Venti appare come una semplice parentesi. Ciò non significa però che l’opera possa essere facilmente compresa e apprezzata tutta d’un fiato. Il pittore, che cambiò radicalmente stile, che si fece copista dei grandi maestri prima di imitare le proprie prime tele, seguì un percorso tortuoso.

Dopo il suo arrivo a Parigi nel 1911, il gotha artistico, da Apollinaire a Éluard, fu rapido nel salutare la sua pittura enigmatica e “metafisica”, le sue piazze d’Italia popolate di statue equestri dalle lunghe ombre, di busti antichi, di piccole sagome fantomatiche che trascinano la loro solitudine oziosa. Le visioni oniriche e angoscianti, con la presenza sulla scena di elementi incongrui – quei caschi di banane o quegli orologi talvolta privi di lancette – diedero origine, secondo André Breton, a una “mitologia moderna”, a un insieme di segni allarmanti tra i quali le connessioni si stabiliscono per vie misteriose. Le “Muse” sono dunque “inquietanti”, con la loro testa a forma di lampadina. E se le linee ancorano questo mondo in un classicismo geometrico e rassicurante, troppi spostamenti o sostituzioni ne confondono le carte. Prospettive e ombre falsate, luce giallastra che non corrisponde a nessuna ora del giorno o della notte: in questi quadri, apparentemente governati dalla regola del numero e dell’ordine, tutto è falso e sconvolto, appartenendo infine a un “neoclassicismo scettico”.

Inoltre, l’uomo stesso vi è piuttosto inconsistente. La serie degli “Archeologi” continua a generare creature metà robotiche e metà scultoree, senza volto e con corpi inanimati, simili ai grandi manichini del 1917. Questi ventri aperti su macchinari complicati o riempiti di architetture ricevono anche il rinforzo di strani gladiatori. Lontanissimi dall’orgoglio fiero e virile dell’uomo nuovo eretto a modello dal fascismo negli anni Venti, queste figurine assomigliano a combattenti tascabili, a gladiatori burattini con, al massimo, un piccolo scudo e una lancia, ma soprattutto una postura goffa. Molto teatrale nelle sue messe in scena, la pittura di De Chirico non è meno un teatro d’ombre.

 

WARHOL ADORA "L'IDEA CHE CHIRICO RIPETA GLI STESSI QUADRI ANCORA E ANCORA"

Dal 1920 al 1935, egli si proclama Pictor optimus (“Il miglior pittore”): un ritorno alla grande pittura, con ritratti ampollosi che danno grande spazio alla materia, alla pennellata vivace e ostentata. È il momento in cui il pittore attinge avidamente lezioni dai grandi trattati di pittura accademica e si fa copista dei grandi maestri: Michelangelo, Tiziano, Rubens, Fragonard, Watteau, Courbet – la lista non è esaustiva – entrano allora nel suo “museo immaginario”. De Chirico fa pratica, riscopre i classici, si fa classico a sua volta, rischiando di lasciare ad altri le vie della modernità: non è più quel pittore audace che si faceva veggente nelle sfere dell’inconscio, ma sfiora piuttosto il grottesco e sembra rallegrarsene.

Realizza autoritratti in costume d’epoca, “il volto svuotato dal pensiero, gregario e ottuso, sotto la chioma di lana bianca, le mani incrociate sul ventre prominente”, come lo descrive senza indulgenza Julien Gracq in En lisant, en écrivant. Affida a sua moglie il ruolo di Diana cacciatrice o di Angelica, personaggio del poeta italiano Ariosto, in quadri barocchi dalla materia densa, se non voluttuosa. Dipinge Venezia in piccoli quadri molto turistici. Ma, a forza di imitare i maestri o i generi tradizionali, finisce in un certo senso per imitare se stesso.

A partire dagli anni Quaranta, De Chirico copia le proprie opere metafisiche introducendo sottili variazioni: sposta una torre, aggiunge dei frutti, cambia la posizione di una statua... Gli si rimprovera allora di essere il proprio falsario, di girare a vuoto, di voler vendere. Andy Warhol, che fu suo amico, vi vide un principio fondamentale. L’americano confidò al curatore italiano Achille Bonito Oliva, nel 1982, in occasione della mostra De Chirico al MoMA di New York, quanto apprezzasse il pittore italiano per questa “idea che egli ripete gli stessi quadri ancora e ancora. Amo enormemente quest’idea, e ho pensato che sarebbe stato fantastico applicarla.”

L’ultimo Warhol non evitò egli stesso il rimprovero di fare troppi ritratti su commissione. Ma consacrò De Chirico come inventore della serie, di quell’idea secondo cui un capolavoro non deve necessariamente essere unico, può essere copiato, rifatto quasi identico, e avere due, tre, quattro... fino a diciotto versioni (appena) diverse delle Muse inquietanti.

Non contento di spostare la realtà in un mondo parallelo popolato di esseri ansimanti e senza volto, facendosi “de-paesaggista”, secondo l’espressione di Jean Cocteau, l’ex pittore d’avanguardia, ex pittore accademico, poi pittore di serie, si è anche molto spostato all’interno dei propri quadri. Il ritorno di Ulisse, realizzato dieci anni prima della sua morte, mette in scena l’eroe dell’Odissea in un’epopea paradossale: in un interno arredato, una grande pozza che rappresenta il mare e Ulisse in una barca che rema. Come se, pur tornato a casa, fosse ancora altrove, ad affrontare venti e maree. Forse una metafora di quel De Chirico che non cessò di tornare su se stesso.

 

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