Morandi, la natura morta in serie

Né del tutto uguali né del tutto diverse, le nature morte di Giorgio Morandi sono lo specchio delle ossessioni dell’artista che ha dedicato la vita a esplorare il rapporto tra pittura e realtà. Quest’autunno al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris
Guitemie Maldonado, L'oeil, Ottobre 1, 2001

Lo studio di Giorgio Morandi (1890–1964) è stato molto fotografato, così come gli oggetti semplici eppure divenuti iconici che si allineano sui suoi scaffali. Tra queste ampolle, bottiglie e vasi, si è cercato il segreto motore delle sue immagini silenziose. Con modulazioni di tono profondamente materiali e tuttavia “come disincarnate”, secondo Yves Bonnefoy, Morandi crea il suo universo pittorico, traendo forme semplici dal suo ambiente immediato o dal mondo esterno osservato dallo studio.

Gli studi di Bologna e di Grizzana sugli Appennini costituiscono, per questo artista che viaggiò pochissimo, dei veri microcosmi capaci di nutrire sempre la sua visione. Da qui la sua evoluzione condotta in gran parte ai margini della scena artistica contemporanea. Legato per un periodo al Futurismo nel 1914, si concentra presto sulle lezioni del Cubismo e soprattutto di Cézanne, prima di cimentarsi nella pittura metafisica intorno al 1920. Queste ultime tele—alle quali in seguito negherà ogni simbolismo—gli valsero l’ammirazione di Giorgio de Chirico, che scrisse nel 1922: "Egli guarda con l’occhio dell’uomo che crede; e l’intimo scheletro di queste cose morte per noi, perché immobili, gli appare nel suo aspetto più consolante: nel suo aspetto eterno. In tal modo egli partecipa al grande lirismo creato dall’ultimo profondo arte europea: la metafisica degli oggetti più noti. Di quegli oggetti che l’abitudine ci ha reso così familiari che noi, per quanto avvertiti dei misteri delle apparenze, li guardiamo spesso con l’occhio dell’uomo che guarda e non sa." Da allora, le basi dell’opera di Morandi sono poste: l’indagine del quotidiano e la trasformazione degli oggetti comuni attraverso la semplificazione per esprimere, come attraverso il piccolo cannocchiale della pittura, una visione globale del mondo.

 

UN REALISMO SEMPLICE E AL TEMPO STESSO STRANO

Senza mai abbandonare questi oggetti quotidiani, l’opera di Morandi si collega poi al “ritorno all’ordine” incarnato in Italia dalla rivista Valori Plastici, fondata nel 1918. Egli non si allontanerà più da questo realismo semplice e tuttavia singolare, declinato attraverso un numero ristretto di temi: nature morte, fiori e paesaggi. Al di là di questa apparente semplicità, la fortuna critica dell’opera di Morandi è rivelatrice della sua complessità e dei suoi innumerevoli paradossi: per alcuni erede della più alta tradizione figurativa, da Chardin a Corot; per altri, un fiore all’occhiello del modernismo, dove il lavoro della forma infinitamente variata prevale sul contenuto. Studi recenti privilegiano ora una lettura formalista di quest’opera seriale, ora un approccio politico che mette in luce i suoi legami con le idee del movimento Strapaese, ramo del fascismo che difendeva valori provinciali e rurali. Avanguardista e/o reazionario, l’arte di Morandi attinge certamente a queste molteplici fonti, ma è molto difficile far parlare il “silenzio quasi assoluto” evocato da Bonnefoy.

Riconoscere le nature morte di Morandi è invece cosa facile e presto esse diventano familiari. Legate dal loro cromatismo sordo, in una gamma dal grigio al beige, lo sono anche dagli oggetti che ritornano da un’opera all’altra in varia disposizione. Morandi procede infatti riducendo lo spazio, il numero degli oggetti e gli effetti prodotti. E la neutralità degli oggetti e delle situazioni (solo in apparenza accidentali e banali) rivela, al contrario, la forte impronta di una volontà artistica di dare forma. Gli studi hanno mostrato il lento lavoro preparatorio che precede l’esecuzione delle tele, durante il quale gli oggetti entrano nell’universo della pittura. Essi sono dipinti all’esterno o all’interno per limitare riflessi e trasparenze, poi disposti su una griglia che ne regola geometricamente le posizioni e i rapporti, infine collocati sotto un’illuminazione precisa; Morandi utilizzava volutamente soltanto alcune zone dello studio, sempre le stesse. L’economia dei mezzi è spinta all’estremo dai fondi sempre uniformi; e tuttavia le possibilità di variazione, per quanto minime, sembrano infinite. E se esiste una forma di dominio sul mondo, essa non risiede nella minuzia del dettaglio e nel rendimento delle materie ricercati dai fiamminghi, ma nella rigida costruzione mentale, quasi maniacale. Da ciò deriva, considerando l’opera nel suo insieme, l’impressione di un inventario sistematico condotto su una porzione di realtà, di un gioco combinatorio applicato a oggetti deliberatamente banali. E per un ultimo ribaltamento, il rovescio di questa affermazione di controllo si trova nella sottomissione al mondo sensibile, nello stupore davanti alle sue infinite risorse che una vita intera di pittore non potrebbe esaurire.

 

Il mistero dell’emergere delle cose

La semplicità e la banalità volute da Morandi non fanno che esaltare il mistero dell’apparire delle cose del mondo. Il poeta Yves Bonnefoy ha espresso il paradosso di questi oggetti: "Ravvicinati, talvolta persino sovrapposti, diresti incollati: e tuttavia rimangono estranei gli uni agli altri, come si vede bene che sono estranei anche a sé stessi, vasi che non potrebbero contenere, colli che un tremolio della forma ha sottratto allo spazio. Ci sono tavoli, ma più come una domanda—sul perché delle cose che li ingombrano—che come un luogo per la vita". Tutto nell’opera di Morandi è questione di distanza e, al di là della differenza di soggetto, il confronto con i corpi instancabilmente osservati da Alberto Giacometti non tarda a imporsi. Collocarsi alla giusta distanza dalle cose, mantenendo al contempo il distacco, sembra essere stato l’obiettivo di Morandi, perché la distanza permette sia di cogliere sia di trasformare gli oggetti, di catturarne le linee essenziali e di introdurre il tempo della percezione nel processo. Secondo Cesare Brandi, i paesaggi dipinti da Morandi si trovavano sempre molto lontani dal suo punto di osservazione, quasi a distanza da binocolo. E Bonnefoy commenta: "Quel chilometro o due di distesa materiale, che dissipava i contorni, gli permetteva di riformarli nell’aria rarefatta e mutevole del piccolo strumento instabile—o di sognare, nel frattempo." In quello spazio che separa l’artista dagli oggetti, nel tempo del loro emergere, si giocano la loro percezione e la loro metamorfosi. Da qui derivano, indissolubili, la magia e l’irriducibile imperfezione della rappresentazione. E se la disposizione degli oggetti riveste tale importanza, se le combinazioni vengono imperturbabilmente modificate, è perché l’artista deve trovare le distanze che, pur separandoli e facendoli esistere isolatamente, li legano indissolubilmente gli uni agli altri. L’occhio oscilla così continuamente tra la percezione dell’insieme e il riconoscimento delle entità isolate, tra l’omogeneità della luce e dei toni e la percezione dei contorni che isolano. Nella successione di queste tele, si realizza dunque l’esperienza visiva più evidente e più misteriosa: quella attraverso la quale il mondo ci appare, si offre e si sottrae nello stesso movimento, sempre lo stesso e sempre rinnovato, esperienza meravigliosa e tragica che giustifica in Morandi la ripetizione delle nature morte e le ricerche formali che esse generano.

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