Ci si va rendendo sempre più conto di come siano le grandi personalità di un'originale e forte, anzi fortissima, partecipazione italiana al "neoespressionismo": quelle di Mattia Moreni (1920-1999), di Giacomo Fieschi (1921) e di Sergio Vacchi (1925). In modi originalmente diversi, ma analogalmente, la loro prima grande stagione è stata da protagonisti dell'Informale negli anni '50, e poi diversamente, ma in certa misucra secondo personali idealmente connettibili, è seguito lo sviluppo, dall'inizio dei '60 nel caso di Moreni e di Vacchi, e in quello di Fieschi addirittura dall'inizio dei '50, di proposizioni di figurazione nuova, d'accentuata tensione espressiva, più ironicamente espressionista insurrezionale nel caso di Moreni, più visionaria in senso introspettivo con divinazioni escatologiche nel caso di Fieschi. Modi di una figurazione fortemente critica nei confronti di una realtà del profondo, individuale e collettivo, oggi insidiata dall'alienante omologazione consumistica, tendente a cancellare l'identitò e il patrimonio antropologico. Le sole realtà compatibili con il percorso di un Baselitz, operante dall'inizio degli anni '60, di un Immendorf o in un particolare di un Kiefer, attivi dagli anni '70.
Della vicenda di Moreni ecco una ricognizione retrospettiva a cura di Franco e Roberta Calarota (Catalogo Silvana Editoriale), ai Magazzini del Sale di Cervia fino al 7 settembre. Una sua radice espressionista è ben presente già nella prima produzione giovanile a metà degli anni '40, ma si conferma subito dopo nella sintesi dinamica di costruzioni fortemente icastiche attraverso le quali, fra i secondi anni '40 e l'esordio dei '50, Moreni risponde originalmente alla stagione della fortuna del Postcubismo, disinteressato a svolgimenti narrativi a favore di una forte impressività emblematica dell'immagine, che da metà degli anni '50 diviene sempre più epicamente segnica nelle stesure dense di materia pittorica, caratteristiche del suo informale. All'inizio dei '60 l'artista tende a immagini mirate a significare l'invasiva "regressione della specie", in balia di una pervasività tecnologica che atrofizza le funzioni sostituendovi protesi elettroniche. Ed è il grande tema della sua stagione graffittistica, fra metà degli anni '80 e il corso dei '90.
