La Galleria Maggiore, aperta nel 1978 a Bologna, dov'è tuttora la sua sede principale, e attiva sul fronte del '900 classico, sta attraversando una duplice fase di transizione: quella generale, caratterizzata dalla globalizzazione del mercato, che impone nuove strategie; e quella generazionale, attraverso l'apporto, a fianco di Franco Calarota (titolare con la moglie Roberta) della figlia Alessia, nata nell'anno di fondazione della galleria. Abbiamo incontrato padre e figlia di ritorno dall'Armory Show di New York (il gallerista è entrato a far parte del comitato organizzativo) e in partenza per Art Hong Kong.
Franco Calarota, perché quando abbiamo preso accordi per questa intervista, lei ha detto: “E' il momento giusto, perchè sono tornato da poco da New York”?
F.C. Perchè è un'esperienza che fa capire bene le differenze tra l'italia e l'estero per quanto riguarda il mercato dell'arte. Italia: lei provi a immaginare un professionista che ha un buon reddito e che paga le tasse, che decide di comprare un'opera d'arte di un certo valore, diciamo un milione di euro attraverso una galleria. Io, mercante, devo spiegargli che c'è il 21% di Iva da pagare e il 4% di diritto di seguito. Dopodiché devo identificare il compratore attraverso il codice fiscale; poi è il momento del pagamento e lui mi deve fare un bonifico. Poi viene la dichiarazione, ma sarebbe più esatto parlare di “denuncia” all'Agenzia delle entrate. Molto probabilmente un soggetto, dopo un simile acquisto, verrà contattato dall'Agenzia per una verifica o quanto meno una spiegazione. New York: un analogo professionista appassionato d'arte che paga regolarmente le tasse e acquista lo stesso tipo di opera, magari gli mettono una targa in un museo e comunque otterrà dei riconoscimenti. La differenza è questa. E' chiaro che con l'Iva al 5,50% com'è ad esempio in Francia, tutto diventa più facile e solo in Italia chi acquista un'opera di valore viene guardato con sospetto. Il nostro è un Paese in cui si penalizza l'investimento in arte.
Giro il coltello nella piaga: lei opera in un settore, quello della modernità storicizzata, in cui vige il regime della notifica. F.C.Io non dico che non debba esserci controllo da parte del Ministero competente. Però com'è che in Francia tutto è più semplice? Se lo Stato individua un'opera di interesse nazionale ha due anni di tempo per reperire i fondi per l'acquisto. Scaduto quel termine, l'opera è libera e può essere esportata. Qui invece l'opera viene notificata comunque, anche se non interessa.
E lei ha una soluzione?
F.C.Quand'era ministro per i Beni culturali, Giovanna Melandri avanzai questa proposta: di ogni artista si individuino le 100 opere che assolutamente non devono uscire dall'Italia e li si notifichi immediatamente. Tutte le altre sono liberi.
A proposito di ministri: Urbani, pure eletto in un governo di indirizzo liberista, affermò che il mercato dell'arte è pieno di “bru bru”. Lei ritiene che la categoria dei galleristi italiana sia abbastanza qualificata da poter rispedire al mittente queste insinuazioni?
F.C.Ahimè non è tutta così qualificata.
A.C. Diciamo che c'è una sorta di selezione naturale, emergono quelli che effettivamente fanno un lavoro di qualità, anche se l'Italia è un Paese molto polarizzato e anche all'interno di questo sistema ci sono galleristi che in Italia sono molto considerati e all'estero non sono nessuno: magari hanno l'aggancio giusto per entrare in una fiera, ma fanno solo quella, non hanno altre possibilità di muoversi.
F.C. Io aggiungo, a proposito di selezione naturale, che non è un caso se nel 2009 il Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris per la prima completa retrospettiva parigina su De Chirico, per la sezione italiana abbia chiesto la nostra collaborazione. E ora, forti della nostra credibilità internazionale, ad Art Hong Kong presentiamo i nostri Morandi,
E' la prima volta per voi a Hong Kong?
A.C. Si, anche se abbiamo già importanti collezionisti cinesi. Il nostro lavoro è diventato un punto di riferimento per l'opera di Morandi a livello internazionale, anche in oriente.

Dall'alto: Roberta Calarota con Arman, autore del monumento alla Ferrari realizzato nel 1999 e commissionato dalla Maggiore; Luca Cordero di Montezemolo nello stand della galleria ad ArteFiera di Bologna nel 2002 mentre mima il furto di un Morandi; Jeff Koons con Alessia e Roberta Calarota ed Emmanuel Clavé ad Abu Dhabi Art nel 2009.
Perchè non partecipate più ad ArteFiera, nella vostra città?
F.C. Da anni lavoriamo con collezionisti e musei esteri. Quindi abbiamo considerato superflua la nostra partecipazione ad ArteFiera. Ma soprattutto, se io decido di partecipare alla fiera di Bologna, lo devo fare al meglio, “bruciando” materiale che invece mi è prezioso in altre occasioni. Di altre questioni riguardanti ArteFiera preferirei non parlare.
Non siete neanche iscritti all'Associazione nazionale di categoria...
A.C. A mio avviso quell'Associazione non ha molto senso, ma questo lo dico io, Alessia Calarota.
F.C. Non mi sono più iscritto perchè a un certo punto ho capito che l'Associazione non si batte per questioni davvero utili alla categoria, come le agevolazioni, la tassazione ecc.
Perché, rispetto a molti vostri colleghi che non amano le fiere perché mettono a rischio il ruolo storico della galleria, ne siete convinti sostenitori?
A.C. La globalizzazione fa sì che nascano fiere ovunque. Quindi se da un lato sono d'accordo con i colleghi contrari al sistema fieristico, dall'altro penso che questa diffusione sia un segnale positivo, perchè vuol dire che c'è una crescita della domanda e questo stimola quel dinamismo che produce anche incontri con culture e Paesi diversi.
F.C. Il ruolo della galleria tradizionale è anche quello della formazione del gusto del collezionista, oltre alla mediazione tra il mercato, l'artista e il collezionista. E' chiaro che bisognerà rivedere il numero delle fiere, la loro qualità e la loro impostazione. Tanto per essere chiari non sono mostre curatoriali. Si corre qualche rischio in questo senso. Per quello c'è il museo o ci sono le biennali.
Che ne pensate delle fiere online?
F.C. Non abbiamo mai partecipato, però capisco che bisogna prestare una certa attenzione perché è un mezzo importante. Però io credo anche che l'arte online non abbia un grande futuro, perché manca quella componente emozionale che, secondo il mio punto di vista, è indispensabile per coinvolgere il collezionista.
Qualche giorno fa un vostro collega lamentava il fatto che sempre più spesso il compratore si presenta con tutta una serie di informazioni sulle quotazioni, sulle statistiche e sulla tipologia scaricate da internet, dati non sempre comparati con le diverse realtà di mercato che sottraggono ulteriore spazio al ruolo del gallerista. Questa capillare informazione sul mercato vi danneggia o in realtà vi agevola?
F.C. Non ci danneggia né ci favorisce. Quello è un ruolo che ha la casa d'aste, che non interviene in nessun altro modo se non sul piano del mercato: come la borsa, la casa d'aste è il mediatore, che quando il valore di un'opera sale, lo vende a un determinato prezzo.
La innervosiscono le case d'asta?
F.C. In passato la casa d'aste non produceva cataloghi come quelli di oggi. Erano elenchi con le descrizioni dei lotti quasi senza illustrazioni. Non servivano illustrazioni perché non si doveva convincere il compratore in quanto era un esperto, un addetto ai lavori. Oggi i cataloghi d'asta sfoggiano splendide illustrazioni e sono forniti di schede critiche che influenzano il mercato. Questo è il vero danno al mercato. La casa d'aste dovrebbe limitarsi a fare il suo mestiere, che è quello di reperire materiale e venderlo. Invece non è più così. Ma questo perché? Sempre per una mancanza di professionalità della categoria dei galleristi, non solo in Italia, ma nel mondo. Io non posso e non voglio fare nomi, ma lei adesso mi deve individuare nel mondo quanti sono i galleristi che hanno passione, competenza, che quando vendono un'opera parlano del suo significato e del suo valore storico-culturale. Si parla prevalentemente di numeri, di mercato, di speculazione, d'investimento, di moda o di altre ragioni. Questo è il vero problema; è chiaro che la casa d'aste in questo sistema ha avuto terreno facile per inserirsi. Le case d'asta, strutture economicamente fortissime, sostengono di lavorare a supporto del collezionista, di operare come consulenti nel momento in cui mettono in contatto il venditore con il compratore. Invece le case d'asta, e qui bisognerebbe aprire un lungo capitolo, fanno grande mercato, grande speculazione e grande condizionamento. Condizionamento insospettabile in quanto pubblico.
A.C. Io la penso in maniera diametralmente opposta: sono pro internet, pro case d'asta, pro Google, perché secondo me oggi stiamo attraversando una fase mai verificatasi prima. E' vero che la vendita all'asta fa sensazione, fa “evento”, ma ha di positivo che questo “fare notizia” avvicina all'arte persone facoltose che prima non si erano mai interessate a questo settore.

I calarota alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
Come si entra nel comitato dell'Armory Show?
F.C. Ci hanno cercato loro.
E la fiera come è andata?
F.C. A noi va sempre bene. Il pubblico dell'Armory Show è fatto di veri collezionisti. Si creano incontri interessanti, come quello che ha favorito l'organizzazione alla Morgan Library di una mostra in cui si mettono a confronto Philip Guston e i disegni e le incisioni di Morandi.
Nei comitati delle fiere alcuni galleristi sono chiamati a giudicare l'operato di colleghi. Non pensate che questo generi conflitti di interesse?
F.C. I galleristi sono i più indicati allo scopo. Però è vero, se non si fa attenzione è chiaro che i rischi ci sono. Nella formazione dei comitati bisognerebbe applicare lo stesso criterio che utilizzerei per la notifica: si individuino i 100 galleristi più importanti al mondo e a rotazione li si coinvolga nei comitati. Secondo me è giusto che in una fiera ogni galleria sia responsabile di ciò che propone ed espone; il dovere dei comitati, caso mai, è valutare l'autenticità delle opere, un problema che riguarda soprattutto il moderno, e, nel contemporaneo, la solidità dei loro autori, che non devono essere dilettanti allo sbaraglio. Ma ripeto: nessun gallerista facente parte di un comitato ha diritto di imporre delle scelte o di impedire a un collega di esporre opere di un determinato artista solo perché lo stesso autore è rappresentato anche in un altro stand.
Quali rapporti avete con gli eredi degli artisti?
F.C. Dalla morte di Mattia Moreni operiamo con l'Archivio a lui intitolato: sta per essere pubblicato il catalogo generale. La vedova dell'artista è una persona straordinaria perché è di grande disponibilità e competenza ed è una fonte inesauribile di notizie. Ci occupiamo anche dell'Archivio di Leoncillo, ma lì è complicatissimo, perchè di questo artista, il più grande scultore informale in Italia, è difficilissimo recuperare le opere. Chi ha acquistato e collezionato Leoncillo l'ha fatto con la vera passione e di conseguenza non è molto disponibile ai prestiti. Ma se la sua domanda si riferiva al tipo di rapporti che si possono avere con gli eredi, escludendo i casi citati direi che a volte subentrano interessi che possono intralciare il lavoro della galleria.
Parliamo del futuro della Galleria Maggiore.
F.C. La mia ambizione è continuare a operare attivamente nel sistema dell'arte: voglio ovviamente fare al meglio il mio mestiere di gallerista, ma anche avere sempre più tempo per occuparmi del rapporto con le istituzioni e con nuovi progetti, le idee. Alessia si occuperà sempre di più di contemporaneo.
A.C. Si, vorrei “aprire” di più al contemporaneo internazionale attraverso autori attuali. Non parlo di mercato primario, perché non mi ci vedo come talent scout. Sto costruendo una squadra internazionale di persone che lavori con me: oggi non si può più essere solo italiani, oggi bisogna essere tante cose.
Lei si divide tra l'Italia e Parigi: sta pensando di aprire una sede anche lì, come Tornabuoni?
A.C. Sì, stiamo lavorando in tal senso, ma non solo su Parigi.
F.C. Non saranno grandi gallerie, ma piccoli spazi concepiti come show room in più città importanti, come appunto Parigi, Londra e New York.
A.C. A Parigi abbiamo uno spazio che si chiama Advisory Office dove riceviamo i collezionisti, ma io credo molto nei Paesi emergenti: ormai vedo il mondo a tutto tondo, non lo vedo solo occidentale.
Franco Calarota, elenchi tre opere della sua collezione da cui non si separerebbe mai.
Tre sono poche... Diciamo comunque un Franz Kline del 1950, un Fontana e un Campigli, ma anche un Morandi... No, tre sono poche.

Dall'alto, Franco Calarota con Takashi Murakami; con la moglie e Joseph Kosuth; i galleristi con Sandro Chia (il primo da destra) e il figlio del pittore Filippo al vernissage della sua recente personale alla Galleria d'Arte Maggiore; i Calarota con, al centro, Poupy Prath Moreni e Alessandro Bergonzoni all'apertura della mostra di Mattia Moreni nel 2005.
